TICCHE TACCHE

Il suono dello scandire dei secondi, del tempo che scorre, nella mia testa è sempre stato ticche tacche, credo sia un suono che mi porto dentro dall’infanzia: il tocco della pendola, la lancetta dei secondi che non si ferma mai… un suono che, da un punto di vista musicoterapico, fa parte della mia Identità Sonora (Benenzon, 1984). Un suono così radicato in me da averci composto intorno anche un brano…
La percezione dello scorrere del tempo è molto soggettiva, e risente del contesto in cui si sta vivendo un particolare evento, sia questo straordinario oppure ordinario. Questo vale soprattutto nella pratica musicoterapica: in una seduta di Musicoterapia in pochi secondi può accadere quello che non accade durante interminabili minuti. Non è facile per il musicoterapeuta riuscire a gestire il tempo della seduta in un modo che sia coerente con gli obiettivi che ci si è prefissati: siamo esseri umani, e può capitare che la frustrazione prenda il sopravvento.
Un esempio pratico e che descrive in pieno una situazione che si presenta spesso è l’attesa che l’utente si senta abbastanza a proprio agio da iniziare a esplorare uno degli strumenti a sua disposizione: quanto tempo può durare il “silenzio”? Qual è il tempo massimo di inattività che può rivelarci che la Musicoterapia non è un’attività utile per quell’utente? Quando possiamo dire che comincia il “disagio”? E di chi è questo “disagio”, del musicoterapeuta o dell’utente?
La risposta a tutte queste domande è una risposta che possiamo definire tipica della Musicoterapia: “dipende”. Già, dipende dai tanti fattori in gioco durante una seduta: dalla storia sonoro-musicale dell’utente, dalle proposte del musicoterapeuta, dalla sua capacità di entrare in empatia con l’altra Persona, dall’ambiente circostante, dal setting, dal GOS (Gruppo Operativo Strumentale, Benenzon, 1984), e così via.
Queste riflessioni scaturiscono da un caso che sto trattando in questo periodo presso il Centro Alzheimer Margherita di Fano (questo progetto lo racconto anche qui e qui): Marco, nome di fantasia, un dolcissimo e simpaticissimo signore allo stadio medio della malattia, quando è nella stanza di Musicoterapia con me prende gli strumenti e prova a pulirli o ad aggiustarli, ma proprio non li suona. E i minuti scorrono lentissimamente in un silenzio che io stessa devo ancora decifrare…
Come sempre, la cosa più importante è mettersi in ascolto dell’altro, mettendo da parte le proprie aspettative, e non dimenticarsi mai l’orologio da polso, da poter sbirciare ogni tanto, cercando di non perdere la cognizione del tempo che passa, perché un minuto è sempre un minuto, anche nel silenzio più totale. E può essere un minuto comunque importante: dato che “non si può non comunicare” (Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., 1967)1, sarà comunque un minuto carico di significati.
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Note
[1] Gli assiomi della comunicazione sono stati definiti dalla Scuola di Palo Alto alla fine degli anni ’60 del secolo scorso e riportati nel libro La pragmatica della comunicazione umana (1971, Astrolabio). Quello citato è il primo assioma: “Non si può non comunicare. Non esiste un qualcosa che sia un non-comportamento. Le parole, il silenzio o l’attività hanno valore di messaggio, influenzano gli altri e gli altri a loro volta rispondono a tale comunicazione con altra comunicazione.”